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Intestazione di Prova

ILARIA VENTURINI FENDI: UN’ALTRA 
MODA È POSSIBILE
di Irene Alison

Intestazione di Prova

Le radici. Quelle che partono da un padre amatissimo, prematuramente scomparso, e da un cognome (materno) che evoca immediatamente il lusso made in Italy (ma anche le battaglie animaliste contro l’uso della pelliccia). Quelle che ora affondano nella terra morbida dei Casali del Pino, orizzonte di colline ondulate a perdita d’occhio al limitare di Roma, in cui fanno la tana le volpi e corrono i cinghiali.
Il futuro. Quello che passa per una moda non solo sostenibile, ma pionieristica, innovativa, etica, che combini tecnologia e ricerca scientifica per trovare soluzioni alternative all’avvelenamento dell’ambiente e allo sfruttamento degli animali.

Di questo abbiamo parlato con Ilaria Venturini Fendi, terza generazione della dinastia Fendi (figlia di Anna e nipote di Eduardo e Adele Casagrande, fondatori del marchio), che nel 2003 ha lasciato la strada certa – quella che la vedeva ai vertici della maison di famiglia – per l’incerta: studiare da contadina e fondare l’azienda biologica I Casali del Pino, per poi dar vita al proprio brand, Carmina Campus, che concilia sostenibilità, design e artigianato.
Ed è proprio qui che l’abbiamo incontrata, nel suo atelier con la porta aperta sulla campagna – da dove arriva forte il raglio dell’asino Bruno e da cui entra ed esce Ombra, amatissimo pittbull adottato qualche anno fa, all’instancabile ricerca di qualche pietra con cui giocare – alla vigilia dell’inizio della decima edizione di Floracult (dal 25 al 28 aprile a I Casali del Pino, Roma), manifestazione florovivaistica che torna a proporre, attraverso il linguaggio delle piante e dei fiori, una nuova riflessione sul dialogo tra natura e cultura.

Cosa ti ha portato ad allontanarti dal mondo della moda per creare un’azienda agricola e come sei arrivata a I Casali del Pino?
Sono la terza figlia di un padre grande amante della natura, che mi ha cresciuta un po’ come il figlio maschio che non ha mai avuto. Purtroppo mio padre è morto quando avevo 10 anni, ma l’amore per la natura, e il sogno di avere un’azienda agricola come quella che avevamo quando ero bambina, mi è rimasto dentro. Nel 2003, sono finalmente arrivata qui: un’azienda enorme completamente abbandonata, di cui mi sono innamorata. È stato allora che ho deciso di cambiare non solo lavoro, ma anche vita. Ho lasciato il mio posto nella maison e ho cominciato una scuola da imprenditrice agricola: da subito ho deciso di avviare la conversione al biologico, una scelta che oggi, al punto di emergenza ambientale al quale siamo arrivati, mi è sembrata doverosa.

Ripartendo dalla terra, però, hai deciso poi di tornare alla moda: come è nato il progetto Carmina Campus?
Grazie al cognome che porto, avvicinarmi da subito alla moda è stato il percorso più naturale: in questo settore ho conosciuto straordinarie menti creative che mi hanno insegnato l’amore per il bello, la cura per il dettaglio, l’eccellenza della ricerca artigianale, ma, dal momento in cui ho messo piede ai Casali, cambiare pelle, per me, è diventata una necessità. La moda, come tutti gli altri business, nel tempo ha accelerato a dismisura i suoi ritmi: ogni cosa fatta diventa vecchia l’attimo dopo, in un circolo vizioso che non mi permetteva più nemmeno di apprezzare ciò che facevo. Nella mia nuova vita, però, il lavoro creativo mi mancava molto, quindi pian piano è nata l’idea di una piccola linea con la quale creare accessori esclusivamente con materiali di recupero, associati a progetti sociali. Carmina Campus è un latinismo che richiama alle odi del campo, al mio legame con questo luogo che mi ha permesso di ritrovare non solo l’amore per la terra, ma anche quello per la moda, che avevo perso.

Qual è la visione etica e creativa su cui si fonda Carmina Campus?
La prima ispirazione è nata per caso, proprio grazie a I Casali del Pino. Avevo ospitato in azienda una delegazione del Camerun per fare un corso sulle api: dopo quell’esperienza sono arrivata in Camerun io stessa, e lì ho conosciuto le mogli degli apicoltori. Queste donne avevano dei bellissimi cappelli realizzati con materiali di riciclo e io, per dar loro una mano, ho mostrato come potevano essere trasformati in borse ed essere venduti. Il passo successivo, tornata in Italia, è stato recuperare delle vecchie conference bag e ricostumizzarle facendone degli oggetti unici: con la loro vendita abbiamo potuto sostenere un progetto contro le mutilazioni genitali femminili. È su sfide di questo genere che si basa la visione di Carmina Campus, che passa per il recupero di materiali di scarto e per la finalità sociale dei progetti che sposiamo. Magari il mio brand non cambierà il mondo, ma per me è fondamentale valorizzare quei materiali che “muoiono” prima ancora di arrivare sul mercato, e che tra l’altro spesso vengono bruciati, provocando nuovi danni all’ambiente. Amo rovistare nella “spazzatura” delle aziende, e per loro sono diventata una risorsa: le aiuto a smaltire i loro scarti e a dar loro una nuova vita. Se un tempo avevo perso il senso di questo lavoro, con Carmina Campus l’ho ritrovato, facendo qualcosa non solo per me stessa ma anche per il mondo che abbiamo intorno.

“Sostenibilità” è un concetto abusato e rivendicato per scopi di marketing da molti fashion brand: su quali principi deve basarsi per te una moda davvero etica?
La sostenibilità è l’etica del fare: ognuno di noi dovrebbe cercare nel proprio lavoro di trovare delle soluzioni alternative per un mondo che ha bisogno urgente di un’inversione di rotta. Le dinamiche produttive vanno cambiate su tutti i fronti, bisogna cercare di fare un salto di paradigma, e la moda deve assumersi le sue responsabilità visto che, dopo il petrolio, è responsabile, insieme all’industria alimentare, del maggiore impatto sull’ambiente: in questo senso, l’industria dovrebbe essere proattiva nel guidare il cambiamento, ma spesso, invece, più sei grande e più è difficile cambiare. Anche per questo io voglio rimanere piccola, perché da piccola posso essere dinamica, producendo a chilometro zero e vendendo il più possibile a chilometro zero. Ognuno di noi deve essere parte di questo processo: magari non sarai tu a cambiare il mondo, ma devi essere tu che rendi obsoleto quello che c’era prima così che diventi indispensabile cambiarlo.

Le tue scelte ti hanno portata lontano dalle rotte tracciate dall’azienda della tua famiglia e dal modello incarnato da alcuni dei tuoi mentori – penso, per esempio, a Karl Lagerfeld. È stato un cammino esistenzialmente e professionalmente faticoso?
Volevo fare la veterinaria e sono nata figlia di pellicciai: la pelliccia non la uso e non l’ho mai usata, ma sono cresciuta sentendomi sempre “la figlia del macellaio”. Io ho fatto delle scelte diverse, ma non rinnego niente di quello che ho alle spalle: la storia della mia famiglia affonda le sue radici in un mondo della moda completamente diverso da quello di oggi, quello dei grandi couturier come Lagerfeld, non della moda come prodotto di massa con un impatto devastante. Ormai, però, bisogna prendere coscienza che le risorse sono finite e non si può continuare a sfruttarle in maniera cieca. La moda, oggi, deve cercare altre armi per evolvere, abbinando la sostenibilità alla tecnologia per trovare materiali alternativi. Mi piacerebbe che, un domani, il vestito che indossi servisse non solo a appagare il tuo senso estetico, ma anche ad aiutarti a trovare una relazione migliore con l’ambiente.

Domani inaugura la decima edizione di Floracult, con lo slogan “Natura è Cultura”. Cosa significano per te queste parole?
L’uomo fa parte della natura, ma ha perso sempre di più questa relazione di attaccamento alle sue radici: Floracult non è solo una mostra florovivaistica, è soprattutto un’occasione per ritrovare se stessi nella relazione con il verde e con la terra, come è successo a me, aprendo le porte di questo luogo magico. Un nuovo dialogo con la natura, però, non ha necessariamente bisogno di un posto come questo: si può cominciare anche solo curando un vaso di fiori fuori alla finestra.

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