Gli animali,
nelle immagini di Charlotte Dumas, sono esseri pulsanti e pensanti, galassie
lontane con le quali si dischiude, a volte, una comunicazione misteriosa e
intensissima. Da Retrived, progetto dedicato ai cani da salvataggio
dell’11 settembre, a Stay, serie sulle razze equine giapponesi in via
d’estinzione, le sue immagini emanano una vitalità ancestrale, sembrano
sprigionare il respiro caldo dei cavalli, l’ansimare accorato dei cani, l’odore
selvatico del lupo. Attraversando le praterie degli Stati Uniti, i vicoli di
Palermo o la giungla di Okinawa, la fotografa (nata in Olanda nel 1977), cerca
da sempre la strada di un dialogo intimo tra umano e non umano.
Il suo amore per i cavalli l’ha condotta sulle
loro orme da oltre vent’anni, portandola fino alla remota isola giapponese di Yonaguni, vicino Taiwan, per
indagare il ruolo che questi animali, la cui storia per millenni è si è
intrecciata a quella degli uomini e il cui ruolo è stato fondamentale per lo
sviluppo della società umana, hanno oggi nel nostro mondo. Dieci photoook pubblicati dal 2005 a oggi, sei
cortometraggi in cui ha tradotto dinamicamente la sua visione, catturando il
movimento e la mutevolezza dei corpi e dei branchi, Dumas arriva adesso in
Italia, al Rifugio Digitale di Firenze dal 1 dicembre, con un percorso, creato
espressamente per il Rifugio, tratto dai suoi progetti video/fotografici Shio, Yorishiro e Ao, tutti realizzati sull’isola di Yonaguni.
La mostra, che ho curato insieme a Paolo
Cagnacci - seconda tappa di Supernatural, il ciclo che ho ideato per la
galleria di Archea Associati - dischiude l’orizzonte di un dialogo tra la
dimensione naturale, che prende forma nella presenza dei cavalli e nel
paesaggio ancestrale e impervio dell’isola giapponese, e dimensione umana, incarnata
dalla presenza delle tre giovanissime protagoniste di questo racconto di
formazione: tre bambine (Yuzu, figlia di un addestratore di Okinawa, e Avis e
Ivy, figlie della fotografa) capaci di accorciare simbolicamente, con la loro
capacità di comunicare con la terra e con le sue creature, la distanza che ci
separa dalla natura. Ne ho parlato insieme a Charlotte.
L’amore per gli animali è un valore che ti
ha trasmesso la tua famiglia?
Non direttamente. Masono cresciuta in
campagna, nel sud ovest dell’Olanda, costantemente in contatto con gli animali
delle fattorie vicine. Mi è sempre piaciuto stare in loro compagnia, e
quando ho avuto la prima macchina fotografica, intorno agli 8 anni, la prima cosa
che mi è venuta in mente di fotografare sono stati i nostri cani. Per questo
credo che, per me, fotografia e animali siano sempre stati in connessione tra
loro. I miei genitori sono entrambi artisti, e di sicuro hanno influenzato il
mio modo di guardare il mondo. Da bambina mi portarono a vedere i quadri di
Picasso, e rimasi ipnotizzata dal suo lavoro sui toreri. Mi piaceva soprattutto
il modo in cui disegnava i cavalli: fin da piccola, sono sempre stata
affascinata dalla rappresentazione degli animali nell’arte.
Cavalli e cani sono le due specie che hai
fotografato di più. E sono anche le due specie più rappresentative della
relazione uomo/animale. Cosa ti attrae in loro?
Sicuramente il fatto che, da sempre, sono così
vicini a noi. Quando entri in relazione con loro, senti aprirsi con facilità un
dialogo tra esseri senzienti. Fotografando altri animali si ha la percezione di
una distanza che con cani e cavalli si annulla: queste due specie hanno la
capacità e la volontà di creare una connessione straordinaria con l’umano, ed è
questo a renderle per me più attraenti e a rendere il lavoro con loro più
gratificante. Una cosa che mi affascina particolarmente nei cavalli è che, fin
dai primordi dell’umanità, la loro relazione con noi è stata di vitale importanza
per l’uomo, ma l’intimità di questa relazione è bruscamente scomparsa
nell’ultimo secolo. La loro presenza nella nostra società e cultura ha ormai
più un valore simbolico che concreto: non ci sono più molte persone che hanno
contatti ravvicinati con i cavalli, eccetto chi ci lavora. Oggi, la
rappresentazione del cavallo ha più importanza della sua presenza fisica. Mi
interessa molto indagare che effetto ha, su di noi, la scomparsa di questa
connessione.
L’indagine sul ruolo che i cavalli occupano
nella cultura giapponese ha ispirato una più vasta progettualità, che ti ha
portata a distaccarti la dimensione documentaria per accostarti a quella
narrativa, a partire dalla serie The Horse in The Gourd. Da dove nasce questo
lavoro?
Gli animali, a un livello simbolico, sono una
parte fondamentale della cultura giapponese. Eppure, nella realtà,
l’atteggiamento dei giapponesi nei loro confronti è molto ostile e spesso
aggressivo: negli anni trascorsi in Giappone non ho visto molta compassione né
empatia, né per gli animali né per qualunque minoranza che rappresenti, in
qualche modo, un elemento di diversità. Ho cominciato quindi a interessarmi
sempre di più alla storia della relazione tra i giapponesi e i cavalli, e nel
farlo mi sono imbattuta in molti miti e leggende: il cavallo, ancora una volta,
è molto presente nella dimensione mitologica, ma i cavalli in carne e ossa,
invece, non godono di alcuna considerazione. Ci sono così tante stratificazioni
simboliche sui cavalli nella cultura giapponese, che ho avuto quasi la
sensazione che i “veri” cavalli non potessero mai essere considerati
all’altezza delle loro versioni mitiche. Ho trovato questa contraddizione molto
interessante, e mi sono appassionata in particolare a una leggenda che racconta
di un soldato il cui cavallo viveva nascosto nella sua borraccia (realizzata da
una zucca vuota essiccata), e usciva fuori ogni volta che, al momento del
bisogno, il cavaliere la scuoteva. La serie The Horse in The Gourdnasce
da queste suggestioni.
Insieme agli animali, nella serie appare,
per la prima volta nel tuo cammino artistico, anche una figura umana - Yuzu, una
bambina - la cui relazione con i cavalli sembra essere il filo conduttore della
storia. Questa stessa bambina è poi diventata la protagonista del tuo film Shio.
Chi è Yuzu e che cosa rappresenta per te artisticamente?
Ho conosciuto Yuzu nel periodo in cui stavo
fotografando i cavalli nell’isola di Yonaguni, era la figlia di un addestratore
che avevo incontrato a Okinawa, esperto di ippoterapia per persone con
disabilità o affette da disturbi psichici. Aveva 10 anni, e sono rimasta
stregata dalla sua bellezza e dalla sua purezza. Ai bambini giapponesi viene
insegnato ad essere molto silenziosi e obbedienti, ma lei aveva una sicurezza e
una libertà mentale straordinarie: come se avesse la misura interiore del
proprio valore. Mi ha colpito molto, perché questo è sempre stato l’obiettivo
che mi sono posta nell’educare le mie figlie. Yuzu mi ha ispirata nello stesso
modo in cui mi ispiravano i cavalli dell’isola, sentivo che avevano qualcosa in
comune: erano spiriti liberi. Così ho cominciato a fotografarla e filmarla, e
lentamente si è sviluppata l’idea di una serie e di film, in cui Yuzu potesse
rappresentare il tramite tra il mondo umano e quello animale. Yuzu è quindi
venuta con me a Yonaguni con il suo cavallo, originario proprio dell’isola, e
qui ha cominciato a prendere corpo un racconto. Nel film, Yuzu sembra in attesa
di qualcuno o di qualcosa, o forse sembra essere in procinto di lasciare
l’isola per sempre. L’isola stessa è un personaggio di questa trama, ne
percepiamo le minacce e il mistero sotto la superficie di una natura
bellissima. Yonaguni è un luogo estremamente oppressivo: ci vivono circa 400
persone, ci sono pochissimi bambini, e la comunità locale ha un ordinamento
rigidamente patriarcale. In qualche modo, quindi, il lavoro ha assunto un
sottotesto femminista, perché abbiamo la sensazione che questa ragazzina debba
superare ostacoli e barriere per conquistare la propria libertà. A un certo
punto, Yuzu mette al suo cavallo un obi (coperta ndr) tinto con i colori
ricavati dalle piante dell’isola, e questo, nella mia idea, sembra dare al
cavallo una forza maggiore, una sorta di potere ricavato dalla natura, che gli
permette di galoppare via, nel mare, insieme a lei.
Anche il tuo film successivo, Yorishiro,
ha per protagonista, insieme ai cavalli, una bambina: tua figlia Ivy. Che
relazione hanno i due progetti tra loro e perché hai scelto un’altra piccola eroina femminile?
Dal momento stesso in cui ho finito Shio,
mi è nato il desiderio di realizzare un altro film, che ne fosse in un certo
senso la prosecuzione. Quando nel novembre del 2019 sono tornata in Giappone
per mostrare il lavoro a tutti coloro che ne avevano reso possibile la
produzione, ho incontrato Yuko Kitta, il designer che aveva realizzato per me l’obi
che appare in Shio. Da qualche tempo, in realtà, avevo in mente di
portare in Giappone le mie figlie, e di lavorare con loro. In quello stesso
periodo, mia figlia di cinque anni andava in giro tutto il giorno per casa con
addosso un costume da cavallo ereditato da un’amica, comportandosi come un
cavallo. Quindi decisi di chiedere a Kitta di realizzare un costume per lei,
tinto con i colori naturali delle piante di Yonaguni: l’importanza di quel
costume, l’idea che potesse simboleggiare una transizione, trasformando mia
figlia in un tramite tra l’umano e l’animale, mi hanno ispirato a scrivere un
racconto su una bambina che intraprende un viaggio, indossando un costume da
cavallo, attraverso il paesaggio urbano giapponese, fino ad arrivare finalmente
a Yonaguni e trovare lì il suo branco, la sua casa. Ho intitolato il film Yorishiro perché questa parola, in giapponese, definisce un oggetto o un animale che
ospita in sé lo spirito della natura.
Dopo Shio e Yorishiro, hai realizzato
un terzo film, che ha per protagonista la tua prima figlia, Avis, di 10 anni.
Il peso e il ruolo che ha assunto la figura femminile nella tua ricerca più
recente si presta a una lettura del tuo lavoro in chiave femminista…
Il Giappone è un paese estremamente sessista e
poco inclusivo: per me era importante mostrare tre caratteri femminili forti
che incarnano coraggio e resilienza. I tre film sono strettamente connessi tra
loro, anche perché le tre protagoniste incarnano tre diverse età e tre diverse
tappe del cammino della femminilità: 5, 10 e 15 anni, perché nel terzo film
sono tornata a filmare anche Yuzu, che ora è cresciuta. In qualche modo,
quindi, si tratta di un unico racconto di crescita, le cui protagoniste
rappresentano anche, simbolicamente, le giovani donne del mondo, che superano
ostacoli per raggiungere i propri obiettivi. Ancora una volta, piuttosto che
denunciare ciò che non funziona nel mondo, preferisco mostrare la bellezza di
un’alternativa positiva. Yuzu e le mie figlie sono libere e indomite, e finché
ci saranno bambine così, ci sarà speranza di un cambiamento.
L
a versione integrale di questa intervista
sarà pubblicata nel mio saggio "
Muse col Muso, L’immaginario Animale nella
Fotografia Contemporanea", in uscita per Postcart nel 2023
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