Quando ero bambina passavo ore chiusa nell’armadio turchese dove mia nonna teneva le sue pellicce. Erano gli anni Ottanta, e la coscienza animalista non si era ancora avvicinata alla borghesia meridionale. Ricordo con precisione quel tempo trascorso ad accarezzare il pelo, prima verso l’alto e poi verso il basso; e quell’odore, di selvaggio e di borotalco, che per anni ho creduto fosse il profumo di nonna. Non mi domandavo di cosa fosse fatto quel materiale che tutti chiamavano pelliccia. Solo molti anni dopo – forse in terza elementare – scoprii che in realtà si trattava di pelo. Pelo di animale. Pelo di castoro. Pelo di visone. Pelo di volpe. Esseri senzienti che venivano uccisi, e dunque privati di ciò che la natura dava loro per sopportare il freddo, perché l’uomo aveva trasformato una parte del loro corpo prima in materia, dunque in status symbol. Non dimenticherò mai la rivelazione devastante di quella dicotomia, che si ripresentò identica negli anni dell’adolescenza davanti a un piatto di salumi, e di fronte a una bistecca.
Ma è proprio di questa smemorata dualità, quella che ci fa dimenticare l’appartenenza di ciò che usiamo, come di ciò che mangiamo, che si nutre l’industria secondo cui gli animali sono meri beni di consumo, e non esseri senzienti.
Quando ero bambina passavo ore chiusa nell’armadio turchese dove mia nonna teneva le sue pellicce. Erano gli anni Ottanta, e la coscienza animalista non si era ancora avvicinata alla borghesia meridionale. Ricordo con precisione quel tempo trascorso ad accarezzare il pelo, prima verso l’alto e poi verso il basso; e quell’odore, di selvaggio e di borotalco, che per anni ho creduto fosse il profumo di nonna. Non mi domandavo di cosa fosse fatto quel materiale che tutti chiamavano pelliccia. Solo molti anni dopo – forse in terza elementare – scoprii che in realtà si trattava di pelo. Pelo di animale. Pelo di castoro. Pelo di visone. Pelo di volpe. Esseri senzienti che venivano uccisi, e dunque privati di ciò che la natura dava loro per sopportare il freddo, perché l’uomo aveva trasformato una parte del loro corpo prima in materia, dunque in status symbol. Non dimenticherò mai la rivelazione devastante di quella dicotomia, che si ripresentò identica negli anni dell’adolescenza davanti a un piatto di salumi, e di fronte a una bistecca.
Un estratto del redazionale “Natural Wonder” di wearefur.com, apparso su Vogue Italia nel novembre 2018
Leggendo gli slogan della IFF (da “la pelliccia è il materiale più sostenibile al mondo” a “pelliccia: la scelta responsabile”), tornano in mente – e non senza un certo avvilimento – gli anni Quaranta, quando le pellicce autarchiche servivano per dimostrare il proprio status.
Allora, visti i tempi di ristrettezze, la tendenza era quella di tingere i manti: il pelo d’agnello veniva trasformato in castoro, il coniglio era dipinto come se fosse il mantello di un leopardo o di una lontra. Si andava alla ricerca dell’esotico, e non era poi raro che fossero usate pelli di scoiattoli, topi e gatti. Animali che ancora oggi vengono ampiamente trucidati e dunque utilizzati per ornare capi immessi sovente in modo illegale sul mercato. La normativa europea vieta infatti l’introduzione e l’uso di inserti in pelliccia ottenuti da animali quali il procione, il coyote, la lince e similari provenienti da Paesi che non assicurino che per la loro cattura, allevamento e abbattimento non siano usate tagliole o metodi cruenti che producano gravi sofferenze. Le indagini dei carabinieri e della forestale condotte nel nostro Paese – come l’operazione Racoon e Rascal, che sequestrarono più di mille capi griffati con pellicce dalla dubbia origine – svelano come anche in Italia vengano venduti capi non a norma.Entrare in uno degli allevamenti illegali che punteggiano l’Oriente – come documentato da alcuni coraggiosi ambientalisti cinesi – è mettere piede in un inferno di gabbie minuscole, animali geneticamente modificati per avere più pelo, malattie e dolore. Attualmente in Europa – dove vengono uccisi ogni anno 40milioni di animali – gli allevamenti sono sempre più vietati (l’ultimo Paese a farlo è stato la Norvegia poche settimane fa), e sempre più numerose sono le specie tutelate (come il cane procione, che non può più essere allevato e commercializzato nel nostro continente). In Italia, per quanto l’86,3% dei nostri connazionali si dichiari contrario agli allevamenti di animali da pelliccia (gli ultimi dati Eurispes si riferiscono però al 2016), fra la Toscana e l’Abruzzo, passando per l’Emilia Romagna e la Lombardia ne esistono poco meno di 20. La crisi del mondo delle pellicce nel nostro Paese è ormai innegabile – lo fotografa anche l’Associazione Italiana Pellicceria (AIP), che nota tra il 2015 e il 2016 un calo dell’11,3% e un giro d’affari di 1,2 miliardi di euro -, ma si tratta di un fenomeno globale. Alla fiera Saga di Oslo nel 2016, per esempio, una pelle di volpe si pagava 60 euro, il 52% in meno rispetto al 2015. Questo perché se l’alta moda continua a utilizzare sporadicamente la pelliccia, molti brand ne rifiutano totalmente l’uso come Armani, Gucci, Jimmy Choo, Michael Kors, e Versace guadagnando così l’etichetta di fur free (fra i grandi marchi manca solo Prada). Adesso c’è solo da sperare che “I’d rather go naked than wear fur” – preferirei andare in giro nuda che indossare una pelliccia -, lo slogan che accompagnava la celebre campagna della PETA (People for the Ethical Treatment of Animals), torni a dettare legge. E che le pellicce vengano abbandonate per sempre.
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