ISABELLA, CHE (NON) HA PAURA DEL BUIO
di Irene Alison
Quando l’ho vista per la prima volta, una piccola crepa mi si è aperta nel petto. In quello strato profondo di me non indurito dal tempo, non irrigidito dalla ragione né anestetizzato dalla prudenza, si è fatta largo piccola frattura. Isabella era lì, gli occhi d’oro liquidi di paura e di bisogno. Isabella era piena di zecche, le ossa che si indovinavano sotto la pelle sottile, il posteriore acquattato a terra nella posizione di chi si è abituato a schivare i colpi, o nella migliore delle ipotesi a strisciare via perché indesiderato. Isabella aveva fame, molta, e aveva ancora più fame di contatto. Non era come i cani del branco che avevo visto aggirarsi lì vicino: nati randagi o abbandonati da cuccioli, non avevano memoria di tenerezze ricevute, e vagabondavano stranieri e schivi ai margini del mondo umano che li aveva rifiutati. Isabella no: lei era venuta a cercarmi, lei aveva ridotto le distanze. Era giovane, e se già aveva imparato a temere gli uomini, la paura non aveva sradicato in lei la speranza. Isabella non era mia, ma mia lo è diventata subito. Perché non poteva essere altrimenti: lei aveva bisogno di carezze e io avevo mani per accarezzarla, lei aveva fame e io potevo sfamarla.
Non c’erano altri argomenti: avevo già un cane amatissimo, una vita di incastri complessi tra lavoro, viaggi, dog sitter e passeggiate notturne, ma la crepa nel mio petto è diventata uno squarcio, e in quello squarcio Isabella ha trovato la strada per arrivare a me, e per installarsi – avvolta in una coperta insieme a tutte le sue zecche – sul sedile di dietro della nostra macchina. Ma raccogliere un cane abbandonato non è solo, e non è sempre, l’inizio di una storia d’amore. E se non ci si fa scoraggiare dalla difficoltà di rintracciare un veterinario che di domenica (ma perché nella vita certe cose succedono sempre di domenica?) controlli se il cane ha già il microchip, o di trovare una farmacia di turno che ti venda un antipulci, se non ci si lascia disorientare dalla retorica di chi, intorno, ha bisogno di trovare ottime giustificazioni alla propria inerzia -“poverino, speriamo che qualcuno lo aiuti”, “forse è più felice qui, in mezzo alla natura”, “non puoi mica salvarli tutti, ce ne sono troppi nel mondo”- si rischia comunque di restare paralizzati davanti allo scenario che ci si apre davanti quando vogliamo togliere un cane dalla strada ma non siamo in grado di adottarlo.
In Italia, i cani randagi sono gestiti attraverso due tipi di strutture: i canili, luoghi di accoglienza istituzionali, creati e gestiti da comuni o provincie, e i rifugi, gestiti da associazioni no-profit che si dedicano a raccogliere animali smarriti o abbandonati. Istituito in base a una concezione fortemente zoofoba in un’Italia ancora segnata da una grave arretratezza sanitaria, il canile nasce (con il Regolamento di Polizia Veterianariadel 1954) come struttura in cui i cani accalappiati, anche se non portatori di patologie trasmissibili, possono rimanere per un massimo di tre giorni prima della soppressione. Solo con la diffusione del pensiero animalista, di pari passo con le mutate condizioni igienico-sanitarie, si arriva a una svolta, prima culturale, e poi legislativa. La legge 281 del 1991, considerata da molti tra le più avanzate al mondo, stabilisce il risanamento dei canili proteggendo i diritti degli animali. E mentre in molti paesi europei cani e gatti vengono ancora sacrificati dopo un certo numero di giorni dal loro ingresso, le leggi italiane garantiscono piena tutela della loro vita: la soppressione non avviene mai, se non davanti a malattie gravi o particolarmente dolorose. Ma se questo è il quadro normativo, molte sono le ombre e le deformazioni del nostro sistema. Negli ultimi anni, le inchieste giornalistiche e l’opera instancabile di chi si batte per i diritti degli animali hanno portato alla luce errori e orrori di un circuito in cui il randagio diventa preziosa risorsa per ottenere sovvenzioni, se non addirittura fruttuosa merce da essere trafficata nel resto d’Europa per gli scopi più biechi, vivisezione in testa. E mentre la maggior parte delle strutture pubbliche, in cui molti animali restano parcheggiati a vita in condizioni indegne, sono sempre più fatiscenti e sovraffollate, lo Stato continua a non investire su un piano di sterilizzazione su larga scala. Una femmina può mettere alla luce una cucciolata ogni sei mesi per almeno 6 o 7 anni: questo significa che un solo esemplare, con la sua discendenza femminile, può dare origine ad altri 67mila cani. Se non si comincia con l’arginare questa emergenza senza fine (nel 2016 in Italia sono stati sterilizzati solo 26.841 cani, mentre si stima che siano presenti ancora circa 600mila randagi sul nostro territorio), qualsiasi intervento rischia di essere inefficace.
In questo quadro drammatico, resta spesso ai volontari l’impegno quotidiano di rispondere, con i propri (e non sempre appropriati) mezzi, ai bisogni dei cani abbandonati. Ma anche qui, le cose si rivelano più complesse del previsto: quello che in molti non sanno (e che anche io ignoravo, quando ho raccolto Isabella) è che i rifugi privati, pur non potendo, da statuto, chiedere compensi per i servizi svolti (accoglienza, cibo, cure veterinarie), spesso sono costretti a chiedere cospicue donazioni, anche pari a una retta per il mantenimento del cane nella struttura per il tempo necessario all’adozione, a chi lo ha salvato dalla strada. Al netto della malafede di alcuni, la richiesta, pur risultando difficile da digerire per chi già si sente “eroe” per aver salvato un randagio, ha la sua logica: molti tra i rifugi privati non ricevono alcun aiuto dallo Stato, e la loro esistenza poggia solo sulla generosità dei donatori, in assenza della quale sono i volontari stessi a dover provvedere alle spese per il mantenimento e la salute del cane.
La verità, allora, è che non esiste una strada facile se si salva un cane dalla strada. La verità è che un cane randagio non è mai un cane “libero” ma è sempre un cane emarginato: almeno 18mila anni di evoluzione condivisa (secondo le più recenti analisi sul DNA mitocondriale dei fossili, l’inizio del processo di domesticazione del cane da parte dell’uomo è di gran lunga precedente alla nascita dell’agricoltura e ha fortemente influito sulla stessa evoluzione della nostra specie) ci hanno resi troppo interdipendenti per poterci “liberare” gli uni degli altri. I cani nati randagi hanno solo circa il 19% di probabilità di sopravvivere fino all’eta adulta, e anche girata questa boa l’aspettativa e la qualità di vita sono bassissime. La verità, infine, è che salvare un cane abbandonato non è una buona azione: è un gesto di civiltà. Siamo noi che abbiamo lasciato che i cani si riproducessero senza controllo, noi che li abbiamo abbandonati, noi che li abbiamo usati per i nostri scopi per poi disfarcene quando non erano più utili.Salvare un animale significa, quindi, assumersi una responsabilità – economica, di riflessione, di informazione, di scelta – dovuta, e non solo scaricarlo al canile più vicino. Ma torniamo a Isabella, perché le storie, a volte, hanno un lieto fine. Nella nostra casa, giorno dopo giorno, Isabella ha ritrovato il passo lungo e il portamento fiero dei suoi antenati cani da caccia. Ha capito che le mani dell’uomo servono solo per le carezze, ha scoperto che il cibo è un suo diritto e non qualcosa per cui deve combattere, ha imparato a giocare, e si è ricordata di essere ancora un cucciolo: la paura è ormai una memoria sbiadita, un’ombra fugace nei suoi occhi d’oro. Non tutto è stato semplice. Non sempre io sono stata brava a capirla.
La prima notte che ha passato a casa, accanto al mio letto, Isabella si è alzata e ha cominciato ad aggirarsi inquieta per le stanze: ingenuamente, ho pensato che avesse paura del buio, e il giorno dopo ho comprato per lei una di quelle piccole lampadine che si attaccano alla presa nella camera dei bimbi. Ma Isabella non è una bambina. E non ha nemmeno paura del buio: la notte è il momento in cui i predatori cacciano, e lei, per strada, ha dovuto ricordarsi di essere un predatore, anche se solo per stanare un residuo di cibo da un cassonetto. Oggi, dopo due anni, Isabella passa la notte dormendo profondamente al mio fianco, felice di essere a casa, serena della strada che stiamo facendo insieme lungo quel percorso che da sempre – lei cane, io umana – ci unisce. E non servono lampadine a illuminarci il cammino.
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